MILAN, italy

I racconti erotici e noir del Sig. Rudolf.  Storie di sesso schifose che più schifose non si può.

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Le storie sessuali del Sig. Rudolf

 

Filippina Origgi, ex prostituta dagli occhi ferrigni di ottant’anni, era una vecchia anziana che viveva in una casa nella tranquilla cittadina di Karon Portusella. Aveva vissuto una vita solitaria dopo l’inspiegabile sparizione del marito molti anni prima e, con il passare del tempo, era diventata sempre più depressa e bisognosa di sesso. I suoi appetiti erotici erano esasperati, aveva una fame di cazzo abnorme che non riusciva a saziare neanche masturbandosi con l’ausilio di ortaggi oblunghi.

L’anziana decise quindi di intraprendere un piano bizzarro per non stare più da sola. Aveva sentito parlare di furti e molestie che avvenivano nelle case dei suoi vicini ad opera di uomini del centro Africa fuggiti dai centri di accoglienza del Pd; quindi, le venne l’idea di lasciare la porta di casa aperta di notte, nella speranza che qualcuno di quei bei negroni entrasse e si approfittasse del suo magnifico e voglioso corpo ottuagenario.

Cazzi di negri in barattoli di marmellata verde: voglia di analità esplosiva

Filippina cominciò a tenere la porta socchiusa in modo che fosse evidente a chiunque passasse che la casa era apparentemente vulnerabile. Sdraiata sul letto, indossava una vestaglia consunta che teneva appositamente aperta e dalla quale si vedeva una figa insultata dal tempo, ricoperta di pochi peli bianchi e grigi. C’era qualcosa di speciale sopra quella vagina spelacchiata:  una sostanza vischiosa verde e maleodorante.

Filippina, conosciuta in paese anche con l’appellativo di “La vegia leugia” – la vecchia baldracca in dialetto lombardo – era convinta che nessun uomo potesse resistere alla tentazione di avvicinarsi per indagare su quello strano succo che scendeva abbondante dalle sue mutande ascellari di morbida flanella.

Le prime notti passarono senza alcun evento degno di nota, ma Filippina non si perse d’animo. Era determinata a trovare un negroide che se la scopasse con violenza estrema. Continuò a lasciare la porta aperta ogni sera, nella speranza che il suo espediente funzionasse.

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Poi, una fredda notte d’inverno, mentre Filippina era seduta sul cesso, sentì un rumore provenire dal corridoio. Si alzò ancora col pannolone penzolante e, con prontezza, tornò in camera sdraiandosi sul letto completamente nuda e a gambe aperte. Era eccitatissima dall’idea di venire finalmente stuprata da quei baldi giovani che quelle troie del Pd chiamano risorse; certo, risorse per fare sesso anale con un cazzo di 30 cm di lunghezza e 15 di diametro.

Quindi vide un’ombra scura avvicinarsi cautamente.

L’intruso, un mandingo con le catene ancora alle mani e ai piedi, era entrato. Si avvicinò al ciuffo di pelo bianco sulla figa putrida di Filippina, incuriosito dalla sostanza gommosa che lo ricopriva.

Senza esitazione, il giovane tirò con forza il ciuffo di pelo, ma il composto verdastro colloso che lo ricopriva si attaccò alle sue mani e al suo viso sprigionando un odore così pungente che lo fece vomitare istantaneamente.

Filippina lo guardò, sorpresa dal fallimento del suo stratagemma. Con voce calma ma ferma, gli disse: “Come ti chiami, lurido porco! Come puoi non essere attratto dal mio succo dell’amore? Mi devi scopare, bastardo!”

E il povero disgraziato, terrorizzato rispose: “Mi chiamo Kunta Kinte e no Signora, borgo Dio, tu fare me schifo. Vai via o chiamo polizia!”

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Kunta Kinte, profondamente disgustato, svenne davanti alla puciaccia lurida di Filippina che, umiliata e offesa per il rifiuto subito, prese una pala dal suo giardino e lo pestò senza pietà, per quarantacinque volte, sulla testa del rifugiato. Non contenta, ne segò via la testa con precisione svizzera. Poi venne il turno degli arti e di tutto il resto.

Filippina, in preda a una rabbia cieca, si ritrovò piena di energie ed affamata. Si nutrì delle carni di Kunta kinte per mesi, masturbandosi quotidianamente con il pene enorme della vittima, conservato gelosamente in un barattolo immerso entro una soluzione dalla composizione ignota ma che comprendeva l’inquietante succo verde vaginale nauseabondo.

La fame di cazzi negri non si placò quella singola notte, ma proseguì per mesi e mesi. Nella cucina di Filippina, man mano che i giorni passavano, aumentava esponenzialmente il numero di barattoli verdi esposti sopra la credenza.

Cazzi di negri in barattoli di marmellata verde: Pd, Ong e l’ipocrisia omicida

La donna cominciò a far parte delle Ong e a blaterare su Facebook sui diritti civili e sociali dei poveri africani oltre ad ospitare negri su negri, addirittura pile di negri che finivano però tutti male perché nessuno di loro voleva fare sesso con lei.

Alle amiche che andavano a trovarla, Filippina raccontava di aver trovato la ricetta per cucinare una perfetta e squisita marmellata di mele verdi di cui andava molto fiera, talmente tanto da offrirla alle ospiti con dei biscotti, all’ora del tè.

Giunse il giorno in cui il Karma si manifestò alla vetusta baldracca. Uno dei suoi pensionanti riuscì infatti a resistere alla forza collante di quella dannata sostanza assassina e fuggì raccontando tutto alla polizia. La vecchia lercia preferì darsi la morte piuttosto che dare spiegazioni alle autorità.

Le venne fatta una accurata autopsia anche per capire che cosa fosse quella sozzeria che le calava tra le coscette bianche, raggrinzite, piene di trombi, porri e peli. La scoperta fu sconcertante.

Nella cavità rettale della suicida, venne ritrovato il corpo del marito scomparso, insieme anche a una bicicletta senza sellino e a dei pesci tropicali coloratissimi.

Il liquame verde maledetto altro non era che la conseguenza della putrefazione del corpo del coniuge di Filippina, che se ne stava nascosto nel suo culo da diversi anni.

 

Paura eh?

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