Escort rapite: chi erano le “donne di conforto” della seconda guerra mondiale
Escort rapite: chi erano le “donne di conforto” della seconda guerra
mondiale
Gli uomini di oggi sono abituati a leggere ogni giorno annunci di escort di vario livello su siti appositi. Chiamano le bellissime ragazze che vedono nelle foto o nei filmati, trattano sul prezzo, le incontrano, ci fanno sesso amabilmente e arrivederci e grazie.
Stiamo parlando degli anni bui delle guerre mondiali. Siamo nel sudest asiatico, nei paesi occupati dall’esercito nipponico quando decine di centinaia di migliaia di ragazze e bambine vengono quotidianamente rapite dai soldati giapponesi, portate via dalle famiglie e costrette a prostituirsi nei bordelli istituiti nel 1932 dal governo di Tokyo per “mantenere alto il morale delle forze d’invasione giapponesi”.
Loro sono oggi conosciute col nome di “donne di conforto” ( jūgun ianfu, in giapponese). Nel 1989, grazie alle testimonianze di alcune sopravvissute in Corea del Sud, la vicenda è stata riaperta e le voci delle vittime hanno permesso di scoprire una amara verità, perché queste bellissime ragazze giovani fino ad allora erano state erroneamente identificate come escort volontarie che seguivano l’esercito.
Come funzionavano i casini giapponesi:
Fu uno sfruttamento sessuale di massa, fatto di stupri, torture e uccisioni. Le donne venivano segregate nel campo militare, malnutrite e costrette a vivere in pessime condizioni igieniche.
Durante il giorno erano obbligate allo sfogo sessuale dei soldati semplici, mentre la notte toccava agli ufficiali.
Il mercoledì era un “giorno di riposo”, ma in realtà era un giorno dedicato a visite mediche per prevenire il diffondersi di malattie veneree nella
truppa.
Le superstiti hanno testimoniato di aver subito fino a 30 rapporti sessuali al giorno tutti i giorni. Negli ultimi 40 anni le sopravvissute si sono rivolte ai tribunali giapponesi
per ottenere giustizia, invano. Per il Giappone, la questione si è risolta grazie ad un accordo sottoscritto nel 2015 con la Corea del Sud, ma non per le sopravvissute.
Il Giappone infatti non ha riscontrato alcuna violazione di diritti umani e non si è assunto alcuna responsabilità legale. Una delle vittime ci spiega come si sentiva in quegli anni terribili murata viva entro un bordello:
“Io non valevo niente. Avrei dovuto nascere maschio. Tutto quello che avevo fatto prima della mia cattura – aiutare in casa, lavorare al mercato – era
servito solo a espiare la mia colpa. E adesso che ero lì, valevo anche di meno. Meno di niente”.
Una vergogna epocale, quando ancora le accompagnatrici non erano di alto livello. Una colpa da espiare con il silenzio.